L’ulivo si conferma una pianta sacra in grado di far crescere legami che muri tentano di spezzare
È il caso, ad esempio, della decisione presa a inizio febbraio dal parlamento israeliano (knesset, in ebraico) che ha votato per regolarizzare migliaia di insediamenti illegali su territori privati palestinesi. Una decisione che ha spaccato il parlamento (60 favorevoli e 52 contrari) e portato l’inviato delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nicolay Mladenov, ad affermare che è stata superata “una grossa linea rossa” e che il voto della knesset costituisce un “precedente molto pericoloso” perché si tratta della prima volta che il parlamento israeliano decide su terre occupate in Palestina e, in particolare, sulla proprietà di privati.
Il valore è il significato della terra
Eppure sia in Israele che in Palestina c’è chi vuol continuare a dare alla parola terra, il suo significato originario, quello che le spetta. Ovvero ciò che costituisce il terreno in quanto contiene gli elementi necessari per la nutrizione delle piante, e destinato perciò alla coltivazione. Olive oil without borders (Oowb), letteralmente olio d’oliva senza frontiere, è un progetto nato nel 2005 che riunisce 34 comunità agricole distribuite tra Israele e Cisgiordania, in Palestina, impegnate nella coltivazioni di campi di ulivi. Proprio negli stessi luoghi dove olive e olio rappresentano prodotti fondamentali per l’intera regione geografica e per la sopravvivenza di chi la abita. Nella sola Palestina sono 100mila le famiglie che dipendono da questo frutto e contribuiscono per il 10 per cento del prodotto interno lordo del paese.
Ulivi senza confini
Il progetto è gestito dalla Near East foundation (Nef), una ong che lavora per lo sviluppo economico in Africa e in Medio Oriente e finanziata dalla Usaid, l’agenzia americana che lotta contro la povertà attraverso lo sviluppo internazionale, con 1,2 milioni di dollari che ricadono positivamente sul lavoro svolto da circa duemila tra lavoratori israeliani e palestinesi impegnati nel settore olivicolo e oleario. Ma l’obiettivo ultimo non è solo fare profitto attraverso la cooperazione economica, ma promuovere la pace e la riconciliazione tra i popoli.
“Non ci sono confini reali tra Israele e Palestina”, ha detto Muhammad Hamudi, uno dei coltivatori che fanno parte di Oowb e che lavora a Asira al-Shamaliya, vicino a Nablus, in Cisgiordania. “Nef mi ha aiutato a raggiungere un livello di produzione elevato. Non ci sono più anni buoni e anni cattivi; ora ho il controllo del raccolto”.
Persone su cui contare
Ayala Noy è un coltivatore israeliano di 40 anni. La sua azienda agricola si trova a 20 minuti da Nazareth, dalla parte israeliana. “Stare seduto vicino a un palestinese che ti racconta, con le lacrime agli occhi, quando il suo oliveto è stato bruciato la notte precedente dai coloni. È un’esperienza importante e molto toccante”. Più pragmatico Hamudi che parla del suo incontro con la controparte del progetto come di uno scambio: “Entrambi avevamo da insegnare qualcosa. Loro usano tecniche moderne, noi abbiamo l’esperienza e la conoscenza. I benefici ci sono per entrambe le parti. Non ci sono alternative”.
Non è facile evitare di citare il valore simbolico dell’ulivo, sinonimo di pace in molte culture. Ma in questo caso forse non è neanche giusto provarci visto che il progetto Olive oil without borders ha il merito di sfatare luoghi comuni e unire ciò che la politica divide. Ha costruito legami, relazioni, ha trasformato dei potenziali concorrenti in persone su cui poter contare in caso di bisogno, o anche solo per avere un confronto. In quelle stesse terre dove da decenni si coltivano conflitti e divisioni, ha estirpato l’odio coltivato per anni e ha posto il seme dell’amicizia.