La trasformazione urbana parte da un nuovo modo di abitare i luoghi
Smart cities, rigenerazione urbana, gentrificazione, social mix, comunità. Quando si parla delle dinamiche contemporanee interne alle metropoli, le parole d’ordine sono sempre queste. Il rischio, però, è di concentrarsi su singoli fenomeni smarrendo una visione d’insieme, in grado di raccontare come stia complessivamente cambiando – e come dovrebbe continuare a evolversi in futuro – il nostro modo di abitare i luoghi: “Sono in atto dinamiche molto diverse e tra loro contrastanti, quasi contraddittorie”, racconta a cheFare Rossella Muroni, ex presidente nazionale di Legambiente e oggi deputata di Liberi e Uguali. “Da una parte troviamo grandi centri e grandi città in continua espansione, in cui gli insediamenti vengono realizzati ex novo; dall’altra c’è stato un movimento che ha puntato sul ripopolamento dei centri minori, che però è rimasto in larga parte un auspicio, quasi un’utopia”.
Che lettura dobbiamo dare di due fenomeni così differenti?
Nel primo caso, l’espansione è anche legata alla bolla speculativa che abbiamo avuto in campo edilizio. Una bolla che ha convinto un’intera generazione di potersi permettere di pagare un mutuo e avere così una casa di proprietà, spostandosi appena fuori dal centro. Peccato che poi la bolla sia scoppiata e spesso questi insediamenti extraurbani o immediatamente periferici sono stati lasciati senza servizi e senza mobilità. Sono realtà che ostacolano, per esempio, i bisogni di una famiglia con bambini, perché sono aree che rendono ancora più complessa la gestione dei tempi e degli spazi. Nel caso del ripopolamento dei centri minori, invece, è innegabile come questo movimento sia spesso solo una suggestione. Per noi ecologisti si tratta di qualcosa d’importante ed è per questo che continuiamo a raccontarlo e a promuoverlo, anche perché portarlo a compimento permetterebbe di mettere in sicurezza un pezzo del nostro paese; ma finora poco si è mosso.
Tra le nuove forme di abitare, hai osservato fenomeni positivi e che si stanno consolidando?
Ci sono molte esperienze di rigenerazione urbana, ma anche un’idea di cohousing che si sta diffondendo e in cui si sperimenta non il possesso, ma la condivisione di servizi e spazi. In una società che invecchia come la nostra dovrebbe essere un asse portante: creare comunità attorno ai bisogni e attuare politiche di welfare meno costose ma più efficaci, anche basate sull’affettività, sulla cura del prossimo. Dobbiamo trovare il modo di fare rete, perché il cohousing – vale a dire quartieri o anche solo palazzi che si organizzano per condividere tempi, luoghi e servizi – è una delle rivoluzioni sociali più forti: il cittadino smette di essere un consumatore e diventa un attore protagonista del sistema che cambia.
Pensiamo anche al tema energetico: noi siamo stati cresciuti con l’idea che per accendere la luce basta premere un pulsante, senza avere alcuna consapevolezza di tutto quello che c’era dietro. Adesso nelle abitazioni italiane, secondo i dati di Legambiente, ci sono più di 800mila impianti di pannelli fotovoltaici; micro impianti energetici che permettono ai cittadini di non essere più consumatori, ma produttori di energia. Attraverso l’abitare siamo riusciti a invertire l’ordine degli addendi. Adesso abbiamo di fronte una grande sfida: nel nostro paese non è ancora possibile scambiare energia prodotta sul posto e venderla magari al proprio vicino. In Italia abbiamo qualche problema con il cambiamento, ma il futuro potrebbe essere questo: comunità – condomini o quartieri interi – che diventano autonome per quanto riguarda la produzione energetica. Abitare un luogo diventa così un pezzo di trasformazione urbana.
Abitare un luogo significa anche prendersene cura, che è poi l’essenza di uno stile di vita improntato al biologico. A questo proposito, secondo te che ruolo può avere l’agricoltura nella tua idea di città futura?
Alcune interessanti indicazioni di come l’agricoltura bio e sostenibile possa aiutare a prendersi cura e ad abitare i luoghi arrivano dalle esperienze sempre più diffuse di orti urbani. Che siano realizzati in riserve cittadine, parchi pubblici, cortili o terrazzi condominiali aiutano le persone a vivere meglio, a seguire uno stile di vita più sano, offrono una piccola integrazione al reddito e creano una comunità che intorno agli orti si riunisce e si scambia conoscenze. Rappresentano anche un modo molto pratico per riavvicinarsi alla stagionalità degli alimenti e alle ricchezza varietale di frutta e ortaggi che rende così speciale la dieta mediterranea. Ma non solo. Aree verdi e orti urbani aiutano poi a rendere più belle, ricche di biodiversità e resilienti le nostre città. E nelle scuole sono un metodo pratico e coinvolgente di educazione alimentare a 360 gradi.
Quale potrebbe essere il cuore di questo nuovo modo di abitare?
Per me, una forma di abitare che possiamo definire biologica parte dalla riscoperta del senso della comunità. In cui le nostre abitazioni smettono di essere dei confini, ma dei luoghi in cui si vive insieme. L’abitare del futuro dovrà avere la condivisione come parola d’ordine. Perché ciascuno deve avere una propria lavanderia? La condivisione può essere la soluzione a tanti problemi del nostro tempo, tra cui quello della solitudine. Siamo sempre connessi ma siamo sempre soli. Pensiamo anche alla gestione dei figli: è possibile che in un condominio non si possa trovare un modo di gestire i bambini in comunità, invece di dare per scontato che ogni singola madre debba farsi carico di tutto? Si possono ideare nuove soluzioni e in tante parti d’Europa già si sperimentano. Per noi, in Italia, si tratta anche di recuperare la nostra cultura tradizionale, in cui la famiglia è sempre stata una responsabilità collettiva e allargata: adesso è invece solo un affare di mamma e papà. Dobbiamo ripartire da qui se vogliamo ripensare il nostro modo di abitare: dalla condivisione, dalla comunità, dalla collettività.